Musica in streaming fa male all’ambiente: la nuova ricerca

Le nuove applicazioni che permettono di ascoltare la musica in streaming (Spotify, Deezer, Youtube e tante altre ancora) hanno sicuramente migliorato la vita di tante persone, in virtù dei bassi costi che caratterizzano queste applicazioni e che permettono di ascoltare tutta la musica che si vuole in streaming. C’è, però, da considerare un aspetto che – purtroppo – risulta essere negativo: la musica in streaming fa male all’ambiente, in virtù del numero sempre più crescente di server. A dimostrarlo è stato uno studio delle Università di Oslo e Glasgow.

Perché la musica in streaming fa male all’ambiente

L’impatto ambientale negativo della musica in streaming è molto più dannoso e pericoloso di quanto si possa immaginare. Se si considerano, infatti, soltanto i grandi agenti di inquinamento e distruzione di ecosistemi, non sempre è semplice guardare oltre l’apparenza per scorgere quei fattori che, seppur negativi, appaiono come celati.

Uno di questi è la musica in streaming: l’alto numero di server creati per la diffusione della musica in tutto il mondo, per mezzo di applicazioni a basso prezzo e accessibili a tutti, ha portato a una produzione di gas serra considerevole.

La ricerca delle Università di Oslo e Glasgow ha portato, ad esempio, alla conoscenza di un dato incredibilmente preoccupante: i soli gas serra prodotti dagli Stati Uniti per supportare la musica in streaming sono più del doppio di quelli prodotti in tutto il mondo negli anni 2000.

La produzione di gas serra dagli anni ’70 agli anni ’90

Il fenomeno musicale è sempre stato correlato, in qualche modo, con un danno ambientale che in ogni epoca è stato differente. In base al materiale di cui erano composti vinili, dischi o videocassette la differenza nell’ambito della produzione di gas serra si è sempre avvertita. La ricerca delle Università di Glasgow e Oslo ha portato, dunque, alla conoscenza di tutti i dati delle varie epoche, al fine di dimostrare il continuo progresso del rischio.

Negli anni ’70 la musica era dominata dai vinili, venduti sul mercato come pezzi pregiati in virtù di una richiesta incredibile da parte dei compratori. I materiali plastici utilizzati per produrre vinili hanno portato a una diffusione di 140 milioni di chilogrammi ogni anno.

Con gli anni ’80 la situazione giunge ad un leggero miglioramento, dal momento che i vinili cedono il passo alle videocassette e il minor utilizzo di quei materiali stessi – che hanno grande impatto ambientale – porta a una diminuzione dei gas serra nell’atmosfera. In totale, infatti, sono 136 i milioni di chilogrammi diffusi ogni anno.

Gli anni ’90 portano ancora a un’inversione di tendenza: il mercato di compone dei ben più pratici CD, che rivoluzionano i mercati grazie alla maggiore semplicità di realizzazione e diffusione. Il dispendio di materiali plastici aumenta così come le diffusioni, che aumentano fino a 160 milioni di chilogrammi di gas serra ogni anno.

La produzione di gas serra negli anni 2000

Gli anni 2000 portano a una rivoluzione della musica, non più solida e rappresentata da entità come vinili, videocassette o CD, ma liquida e dominata da MP3 prima, servizi di streaming poi. In virtù di quanto detto finora si potrebbe pensare che, diminuendo i materiali plastici, siano diminuite anche le emissioni di gas serra nell’atmosfera.

Così non è, purtroppo, perché ad aver preoccupantemente sostituito i suddetti materiali sono stati i server, sempre più impiantati per permettere un ascolto globale della musica attraverso applicazioni facilmente scaricabili ed economicamente accessibili a tutti.

L’energia che serve al funzionamento delle componenti informatiche, infatti, porta a una diffusione di oltre 350 milioni di chilogrammi di gas serra solo negli Stati Uniti. Un fenomeno che, data la comodità e la portata certamente economica del tutto, difficilmente si arresterà.